Il vero motivo per cui l’immigrazione in Italia non funziona

È l’assenza di vie legali praticabili per venire qui a lavorare, come ripetono gli esperti da anni: e la colpa è della famosa legge Bossi-Fini

di Luca Misculin

Il dibattito italiano sull’immigrazione si concentra spesso su temi molto visibili come gli arrivi dei richiedenti asilo via mare o la loro trafila per ottenere un permesso di protezione internazionale, spesso tortuosa e a forte rischio di sfociare nell’irregolarità, con la permanenza di migliaia di persone sul territorio italiano senza alcun permesso. Al momento in Italia vivono in queste condizioni circa 600mila persone, una ogni cento italiani e stranieri che abitano regolarmente nel territorio italiano secondo le statistiche ufficiali. Di recente, fra l’altro, il rischio è aumentato notevolmente grazie ai cosiddetti “decreti sicurezza”.

La ragione principale per cui questa stima è così alta, però, viene citata poco spesso, nonostante sia sostenuta da moltissimi esperti: l’assenza di vie legali praticabili per trasferirsi in Italia per lavorare dai paesi al di fuori dell’Unione Europea.

La legge che di fatto le impedisce, fra le più stringenti in Europa, è stata introdotta nel 2002 dal governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi e porta il nome dei due principali alleati dell’allora presidente del Consiglio: Umberto Bossi e Gianfranco Fini, all’epoca leader della Lega Nord e di Alleanza Nazionale, che portarono molto a destra il governo sul tema dell’immigrazione. Da allora si riparla ciclicamente di modificare o abolire la cosiddetta “Bossi-Fini”, ma nonostante il centrosinistra nel frattempo abbia governato per quasi nove anni, la legge è rimasta in vigore, e non sembra che le cose potranno cambiare a breve.

Cos’è la Bossi-Fini
La legge, la numero 189 del 30 luglio 2002, modificava le norme già esistenti in materia di immigrazione e asilo, cioè principalmente la cosiddetta legge Turco-Napolitano del 1998. Il suo obiettivo dichiarato era quello di ridurre drasticamente l’immigrazione irregolare verso l’Italia, che in quegli anni significava soprattutto l’arrivo di barconi in Puglia dall’Est Europa o delle prime imbarcazioni dal Nord Africa.

Oltre all’inasprimento delle pene per i trafficanti di esseri umani, a una sanatoria per colf e badanti, e al rilascio di permessi di soggiorno speciali per alcune categorie di richiedenti asilo, la misura più rilevante fu limitare l’ingresso in Italia soltanto ai migranti già in possesso di un contratto di lavoro. La legge vieta inoltre di rinnovare il permesso ai migranti che non hanno un lavoro nel momento in cui devono rifarlo, cioè ogni due anni. «Le ambasciate e i consolati italiani fungeranno quindi da uffici di collocamento, cercando di soddisfare le richieste di imprese e famiglie», scriveva ottimisticamente Repubblica nel giugno del 2002.

Le cose sono andate in maniera molto diversa. «L’idea che si possano incrociare domanda e offerta di lavoro a distanza, quando il lavoratore straniero si trova ancora nel paese di origine, è semplicemente assurda», spiegò nel 2017 ad Altreconomia il sindacalista della CISL Marco Bove, esperto di immigrazione e lavoro. Nessun datore di lavoro si affida al rischio di assumere una persona che vive a migliaia di chilometri di distanza e che non ha mai visto di persona, esponendola peraltro al rischio di diventare irregolare nel caso qualcosa vada storto durante il rapporto di lavoro. Di conseguenza da allora la maggior parte dei migranti arrivati in Italia per cercare lavoro lo ha fatto irregolarmente, sperando di trovare un lavoro – in nero, i più; in regola, quelli che riescono a ottenere una forma di protezione – e di essere regolarizzata più avanti, in qualche modo.

Anche il criterio di rinnovare il permesso ogni due anni viene ritenuto eccessivamente rigido, soprattutto in un mercato del lavoro molto instabile come quello di oggi. Soltanto nel 2014 i permessi di soggiorno non rinnovati sono stati 150mila, secondo una stima di quegli anni.

Le persone che non ottengono il permesso e quelle a cui scade senza che possano chiederne il rinnovo diventano da un giorno all’altro all’altro degli irregolari, una condizione ai margini della società che li spinge verso la criminalità o il lavoro in nero. Pochissimi di loro vengono rimpatriati, dato che i rimpatri sono da sempre difficili e molto costosi per lo stato.

Per via delle sue rigidità la Bossi-Fini ha prodotto l’effetto opposto a quello annunciato dai suoi sostenitori, generando così tanti stranieri irregolari che sono state necessarie diverse sanatorie per impedire che il loro numero diventasse ingestibile: una prima sanatoria, già prevista dalla legge, venne realizzata nel 2003, e ancora nel 2009 e nel 2011 (entrambe le volte dai governi di centrodestra).

L’unica vera via praticabile per chi vuole entrare in Italia regolarmente per cercare lavoro è avere un parente – madre, padre, figlio, figlia, marito o moglie – che vive in Italia regolarmente: a quel punto si può chiedere un permesso per ricongiungimento familiare, che la Bossi-Fini non ha toccato ed è riconosciuto dalle leggi europee. Nel 2015 sono arrivate in Italia in questo modo circa 107mila persone, il 44 per cento delle persone totali a cui quell’anno è stato garantito un permesso di soggiorno (circa il 40 per cento ricevette un permesso per ragioni di protezione, e il restante 16 per motivi di studio o lavoro).

Come hanno fatto negli altri paesi?
All’interno dell’Unione Europea ogni paese gestisce in maniera autonoma i criteri di ingresso dei migranti in cerca di lavoro. La maggior parte dei paesi ha criteri molto stringenti per concedere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, legati soprattutto alle competenze del richiedente: nella stragrande maggioranza dei casi i permessi sono concessi soltanto ad alcune categorie di lavoratori, fra cui i cosiddetti high-skilled migrants, cioè quelli con competenze molto rare e ricercate, oppure ai lavoratori stagionali, ma con ancora maggiori limitazioni.

In molti paesi – fra cui Austria, Portogallo, Belgio e altri – ci si può solo trasferire dopo avere ottenuto un contratto di lavoro, esattamente come in Italia. In altri paesi, come in Svezia, ci sono possibilità particolari per gli imprenditori che vogliono aprire un negozio o una piccola azienda: le loro richieste vengono valutate da una commissione apposita. Anche in Danimarca esiste un meccanismo simile, oltre a corsie apposite per gli scienziati, i medici e gli infermieri, oltre agli studenti stranieri che hanno ottenuto una laurea o un dottorato in Danimarca.

A volte ai migranti con le maggiori competenze viene assegnata la Blue Card, uno strumento europeo per facilitare l’assunzione di persone extra-comunitarie ad alto livello: li usa soprattutto la Germania – nel 2017 ne ha emesse quasi 21mila, l’85 per cento del totale nell’intera Unione Europea – e riguardano soprattutto lavoratori indiani, cinesi e russi.

In Germania nel marzo del 2020 entrerà in vigore una nuova legge sull’immigrazione che contiene diverse misure – fra cui alcune controverse – ma che prevede soprattutto un nuovo permesso di soggiorno per sei mesi che permetterà ad alcune categorie di lavoratori di trasferirsi temporaneamente in Germania per cercare lavoro. I prerequisiti sono conoscere il tedesco base e avere abbastanza soldi per mantenersi durante i sei mesi.

È una proposta molto simile a quella che propone in Italia la campagna Ero straniero, portata avanti negli anni scorsi da soggetti trasversali fra cui i Radicali italiani, diverse associazioni cattoliche e l’ARCI: un permesso di soggiorno di 12 mesi per consentire ad alcune categorie di lavoratori di trasferirsi in Italia per trovare lavoro. Al momento la proposta è in discussione alla commissione Affari costituzionali della Camera, ma non è chiaro se ci saranno conseguenze concrete a breve.

E i corridoi umanitari?
Sono canali di immigrazione regolare gestiti da privati e associazioni in collaborazione con lo stato. Esistono in diversi paesi europei come Francia, Regno Unito, Irlanda e Italia, e hanno come obiettivo quello di accogliere i migranti in condizione di maggiore vulnerabilità, soprattutto sanitaria. In Italia l’unico corridoio umanitario di una certa rilevanza è quello gestito dalle Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) con la Comunità di Sant’Egidio (una nota comunità cattolica progressista) e la Tavola Valdese, avviato nel 2015 e rinnovato.

Spesso i corridoi umanitari vengono raccontati come «un modello virtuoso», e uno «strumento essenziale»: può essere, ma va detto che riguardano numeri piccolissimi. Il principale corridoio umanitario italiano ha coinvolto 1.809 persone dal febbraio al giugno 2016, un secondo corridoio umanitario realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio e la Chiesa italiana ne ha riguardate altri 498 dal Niger e dalla Giordania. Di recente se n’è aggiunto un terzo gestito da Caritas, Chiesa Italiana e Comunità di Sant’Egidio, che ha portato in Italia 71 persone dall’Africa centrorientale.

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