Articolo di Luigi Manconi pubblicato su Repubblica il 13 marzo 2023
È stato proprio uno dei suoi padri, Gianfranco Fini, a dichiarare che la legge 189 del 2002, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo, «va cambiata».
Perché, la cosiddetta Bossi-Fini, secondo l’ex leader di Alleanza Nazionale, è «datata». Il che è certamente vero, ma non la dice ancora tutta sul quadro giuridico che è all’origine dello stato disastroso in cui versa oggi la politica italiana per l’immigrazione. Da qui, dunque, si deve ripartire: dal superamento di quella legge. Pur riottosamente, alcuni pezzi della maggioranza di Governo sembrano orientarsi verso un mutamento di linea, anche se i provvedimenti assunti dal Consiglio dei Ministri di Cutro vanno in tutt’altra direzione.
Il cuore del problema è rappresentato dall’intreccio perverso di due fattori: la quasi impossibilità di arrivare in Italia attraverso canali legali e sicuri; la pericolosità e la letalità delle rotte irregolari. In sostanza, è la rigidità del meccanismo di ingresso in Italia per chi cerchi un lavoro la prima causa dell’immigrazione irregolare.
Oggi, l’ingresso e la permanenza sul nostro territorio sono consentiti esclusivamente a chi già dispone di un contratto e solo all’interno delle quote nei settori lavorativi indicati dal decreto flussi. E non sulla base dei concreti bisogni delle aziende e dei diversi distretti territoriali. In pratica, il datore di lavoro deve far arrivare dall’estero il lavoratore già con un impegno di assunzione e dopo aver verificato novità appena introdotta che non vi sia la disponibilità di un italiano.
Ne consegue che una parte consistente della domanda di lavoro rimanga insoddisfatta e che una parte altrettanto consistente dell’offerta finisca nel “nero”. Da tempo l’ufficio studi della Confindustria stima in 500-600mila i lavoratori di cui ha bisogno il nostro sistema produttivo; e la Coldiretti aveva valutato in mezzo milione di addetti il fabbisogno indispensabile al comparto agricolo. Le proposte per un reale cambiamento ci sono.
Eccole: prevedere canali di ingresso più flessibili attraverso un permesso di dodici mesi per ricerca di lavoro, che agevoli l’incontro tra stranieri e datori di lavoro italiani e che consenta di svolgere colloqui in base alla richiesta di determinate figure professionali. Poi, reintrodurre la figura dello sponsor, già prevista dalla legge Turco-Napolitano, che consentirebbe l’inserimento nel mercato del lavoro dello straniero su invito del datore di lavoro italiano.
Ancora, regolarizzare gli stranieri presenti in Italia, seppure privi di documenti, se già impiegati in attività lavorative, in particolare nel settore domestico e della cura della persona. Questo è il fulcro della campagna “Ero Straniero” che, dal 2017, vede protagonisti amministratori locali e sindacati, associazioni datoriali, organizzazioni laiche e religiose. Un lungo e paziente lavoro che ha portato il tema dell’immigrazione all’interno della discussione pubblica quotidiana e che ha raccolto decine di migliaia di firme in calce a una legge di iniziativa popolare.
Oggi quel testo è stato incardinato, col sostegno di +Europa, del Pd e di tutta l’opposizione, tranne M5S, nel calendario dei lavori della Commissione Affari Costituzionali della Camera. È un primo e importante passo, anche se il cammino, prevedibilmente, sarà lungo e accidentato. Intanto, si fa un gran parlare di corridoi umanitari, ma qui va fatta chiarezza. Dalla fine del 2015, la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la Caritas organizzano viaggi legali per profughi, che prevedono sia un’accurata preparazione degli interessati, sia progetti di loro inserimento nel nostro paese.
Un’esperienza preziosa ma decisamente minoritaria: i dati dicono che le persone giunte in questi sette anni sono state 3.955, mentre quelle accolte in Europa, attraverso la stessa via, sono state mediamente 60 al mese. Numeri esigui, a fronte dei circa 500mila richiedenti asilo ogni anno. Dunque, i corridoi umanitari non costituiscono una panacea. L’arrivo in Europa di migranti e profughi può essere affrontato solo attraverso una politica comune e una strategia condivisa di equa distribuzione. Anche queste parole, come è ovvio, suonano astratte. E così effettivamente è, ma l’unico modo per tradurle in provvedimenti concreti è quello di affidarsi a una durissima lotta politica sul piano nazionale e sul piano europeo.
Dopodiché, deve essere chiaro che l’immigrazione costituisce un fenomeno realmente epocale, come usa dire, e che è destinato ad accompagnarci lungo tutto il futuro. Se questo è vero, concentrare pressoché tutta l’attenzione sugli scafisti non so se si debba considerare più un escamotage emotivo-retorico o, semplicemente, un colossale difetto di valutazione delle priorità. Anche per queste ragioni appaiono autolesioniste alcune scelte del Governo. Si pensi al decreto che, nei fatti, mira a scoraggiare e ostacolare l’attività di soccorso in mare. È questo che contribuisce alla creazione di un clima dal quale può discendere l’incertezza e, forse, l’inazione che ha prodotto la strage di Cutro. La Guarda Costiera italiana è un corpo competente, che dà prove quotidiane di eroismo.
Ma valga una modesta testimonianza personale: alla fine dello scorso luglio, insieme alle Ong del soccorso, ho incontrato il Comandante Generale delle capitanerie di porto e i suoi più stretti collaboratori per verificare se vi fossero le condizioni per una cooperazione, più stretta di quella già in corso, con le navi dei volontari. La risposta fu negativa. Un grave errore che stiamo pagando e che ancora pagheremo tutti.